In una sala affollata del Cinema Massimo viene proiettato Adama, opera prima del francese Simon Rouby. Una breve introduzione lascia rapidamente posto alla proiezione, con un sorprendente mix di grafica 3D e sfondi d’ispirazione pittorica, i cui colori accesi fanno da contorno allo svolgersi della vicenda. Dai predominanti colori caldi dell’Africa, si passa ai sempre più spenti e grigi toni freddi di una Francia devastata dalla povertà e dalla guerra (siamo nel 1918).
Il film si rivela una sorta di poesia per immagini, andando a toccare temi quali l’allontanamento dal proprio luogo di nascita, la messa in discussione delle tradizioni degli antenati e l’apertura verso il mondo esterno, per poi tornare alle origini carichi di una conoscenza e consapevolezza che prima erano assenti. I due ragazzi, Adama e suo fratello Samba, tornano al villaggio da uomini, avendo osato trasgredire il veto dell’anziano ma rimanendo comunque fedelmente memori delle proprie radici, cosa che grazie alla guida del folle ma saggio Abdou permette loro di tornare a casa senza portare addosso l’ombra della corruzione e degli orrori a cui hanno dovuto assistere.
Un racconto di maturazione e crescita, di contrasto fra i sogni di gioventù e la dura, crudele realtà della vita. Adama riprende la struttura delle favole africane, andando a guardare il mondo con un misto di superstizione, spiritualismo e semplicità contadina che mal si sposa con l’indifferente e industrioso materialismo dell’Occidente e di quanti sono attratti dal suo mito di ricchezza, mito che, come descritto dalla profezia di Abdou, porterà quanti lo inseguono alla rovina e alla morte.
In conclusione, non lascia punti oscuri, dichiarando apertamente che l’unico modo con cui un uomo può salvarsi davanti alla realtà della vita è restare saldo nella memoria delle proprie origini, perché chi dimentica il luogo da cui proviene è destinato a non trovare mai più la strada di casa.