Katya e Stella sono a tavola con i genitori, la giornata coi suoi affanni sta finendo in un piacevole pasto condiviso. «Cos’hai messo nell’insalata papà?!» «Il solito Katya… limone, aceto, avocado e coriandolo..» Katya esamina terrorizzata il suo piatto: «Quante volte te l’ho detto che non lo mangio il coriandolo!?»
Al padre non è dato il tempo della replica, perché la ragazza è già svanita, lontana da tutti lontana da se stessa; ma gli occhi della sorella, grandissimi e consapevoli, la cercano, la seguono, la spiano fino al luogo del delitto: una porta socchiusa, un bagno. Katya è in piedi, appesa come un dipinto ormai opaco, che si riflette davanti allo specchio, due dita in gola per vomitare quei pochi colori restanti, il niente appena deglutito. Bisogno, repressione, ossessione; ingenuità, sottovalutazione, e poi segreti, fratellanza, complicità: i temi di My skinny Sister stanno tutti in questa scena. Dove la regista Sanna Lenken, qui come in tutto il film, sa descrivere la tragedia dell’anoressia, ma senza mai mostrarla fisicamente: niente corpi spaventosamente pelle-ossa, niente immagini esplicite di vomito né dettagli visivi sulla terapia. Basta la profonda riflessione sulla mente e i mostri che quel disturbo produce facendone una gabbia. Una prigione a sbarre di ghiaccio, affilate e scivolose, proprio come l’habitat naturale di Katya, stella nascente del pattinaggio artistico a livello professionistico, in una tranquilla città della Svezia. Quel ghiaccio però, si potrà sciogliere se un po’ di luce, un passo alla volta, filtrerà le sue sbarre: la piccola Stella, un po’ impacciata, un po’ sovrappeso ma già matura, è da subito la prima fonte di salvezza per Katya. Per questa causa è disposta pure a sospendere la propria infanzia, e solo quella corsa con gli amici nei boschi, nella scena finale, riflette la fine di un incubo, la libertà ritrovata. E poi mamma Karin e papà Lasse, prima troppo distratti e poi troppo agitati, che infine trovano, insieme, la soluzione migliore per la figlia.
L’amore, la collaborazione e la com-passione di sofferenze apparentemente inspiegabili sono la vera cura dell’anoressia: a ribadirlo è il Dr. Federico Amianto, ospite di Domenico Chiesa ed Emiliano Fasano nel dibattito dopo la proiezione. Momento costruttivo e partecipato, qui ritorna anche il concetto sociale dell’isolamento, che Alone, un corto valenciano (prodotto da un Festival gemello del nostro) aveva già introdotto prima del film.