Sono uscita dal cinema ieri sera e ho camminato in silenzio dentro la nebbia, pensavo a chi non vuole ricordare una delle pagine più grigie della storia umana. Johann Radmann non solo vuole ricordare, vuole risvegliare le coscienze dei tedeschi assopiti dall’occultazione della verità.
Da questo nodo cruciale si dispiegano le vie de Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli, lungo le quali Johann tenterà di scoprire cosa era davvero Aushwitz e cosa vi accadeva. La storia del campo di concentramento arriva direttamente dalle voci dei testimoni che uno alla volta si siedono di fronte al giovane e raccontano la loro storia. Quei racconti sono memoria, ma per Johann diventano qualcosa di più: un’ossessione.
L’ossessione di giustizia lo conduce in un vortice di senso di colpa incompresa e inarrestabile, pur non essendo stato presente a quegli orrori li vede e li rivive. Ma il processo non deve condannare solo gli uomini che sono più responsabili delle atrocità del gas, devono pagare i tedeschi comuni tutti che non hanno detto niente e hanno taciuto con indifferenza per tutti gli anni seguenti. Il film ci racconta la storia del secondo processo più importante della storia, che ha visto testimoniare 211 sopravvissuti ad Aushwitz e 17 condannati. Sono state rese Storia le storie di uomini e donne che hanno visto svanire in cenere le loro famiglie, la loro libertà e il loro essere umani.
Come ha detto in introduzione Emiliano Fasano, rappresentante del Festival, il film è molto importante per la Germania, perché in queste immagini il paese cerca di raccontarsi all’estero, cerca di rappresentare la vera nazione e non quella macchiata dall’uccisione di migliaia di uomini. In un certo senso potremmo definirlo come una parte di un processo di espiazione senza tempo, come la memoria dell’essere umano che non ha mai fine.